Illustrazione di Flavia Caracuzzo
IL SEGRETO DEL
DOTTOR FRANCHETTINI
Una persona “
strana”.
Il
Dottor Franchettini lo potevi incontrare tutte le mattine al Bar Lilly intorno
alle 7 e 15, 7 e 30 al massimo. Usciva di casa prestissimo e non rinunciava mai
al suo caffè macchiato, neanche in pieno inverno. La cosa che più colpiva nel
volto rugoso erano gli occhi: chiari, freddi ed impenetrabili, anche quando
sembrava sorridere.
I
modi erano sempre gentili ed educati, ma nessuno nel quartiere sapeva nulla di
quell’uomo. La signora Liliana, proprietaria del bar, raccontava in giro che fosse un medico in
pensione e che la moglie era morta già da molti anni. Non aveva figli.
Qualche
volta avevo provato ad approfondire, mentre consegnavo le monete per pagare la
colazione, depositandole nella mano
rugosa ed ingioiellata della signora: “Ma il dottor Franchettini… lavorava in
ospedale?” Lei imbronciava un po’ la bocca, eccessivamente dipinta di
rosso, sollevava la curva delle sopracciglia, guardava verso
il basso, ma non rispondeva.
Mi
ricordo che in quella mattina di febbraio faceva molto freddo, e lui era tutto
imbacuccato: cappotto lungo, sciarpa attorcigliata un paio di volte intorno al
collo, basco di lana, guanti di pelle.
Stavo
entrando quasi di corsa nel bar insieme a Lorenzo – dovevo accompagnarlo a
scuola ed eravamo già in ritardo – quando lui uscì. Ci urtammo, spalla contro
spalla, e per la prima volta lessi su quel viso una nuova espressione, un misto
di paura e rabbia. Anche Lorenzo cominciò a farmi delle domande. Aveva solo
dieci anni, ma si incuriosiva delle persone che lui definiva “strane”.
“Mamma, il Dottor Franchettini vive da
solo? Quanti anni ha? Sai che l’altro giorno ho visto che aveva comprato un
orsacchiotto di peluche? E’ proprio strano…”
Io smorzavo la curiosità
morbosa di Lorenzo, non era opportuno che si distraesse troppo dalla scuola e
dallo sport, ma qualche giorno dopo, tornando dalla palestra, notammo il
vecchietto, che usciva da un negozio di
abbigliamento per bambini con una busta enorme.
Lorenzo mi tirò per un braccio: “Mamma, seguiamolo, ti prego, voglio
sapere dove sta andando!”. Infilai gli
occhiali da sole, anche se era quasi
buio. “Va bene, camminiamo vicino al
muro, stai attento a non farti vedere”.
Il Dottor Franchettini dopo
un centinaio di metri si voltò. Avevo il cuore in gola per la paura. Non si
accorse di noi, fortunatamente. Subito dopo entrò in una farmacia e si rifornì di una grande
quantità di cerotti, garze e disinfettanti.
Eppure non sembrava stare male, anzi… ora camminava spedito verso casa.
Rimanemmo nel cortile del palazzo, da dove potevamo vedere le finestre
dell’appartamento del dottore. Lorenzo volle la mia agendina, dove trascrisse l’esito delle indagini:
“Il DF ha comprato dei
vestiti per bambino e dei cerotti. E’ rientrato in casa alle ore 19,05 e si è
recato in cucina. Alle 19,10 è sceso in cantina. Alle 19,30 è risalito in cucina ed ha
mangiato una cotoletta. Alle 19,50 è sceso in cantina con un iPad.”
Era proprio andata così, ma
ero talmente stanca ed infreddolita che non vedevo l’ora di tornare a
casa. Lorenzo invece era eccitatissimo:
“Mamma, dobbiamo tornare più tardi, voglio scoprire chi c’è in cantina.” “Tu
sei pazzo, domani hai il compito di storia, dobbiamo ancora ripassare…”
Stranamente Lorenzo non protestò, ma forse lo dovevo capire che non si era
arreso per nulla.
La cantina degli orrori.
Mi ero messo a letto dopo
aver mangiato un hamburger buonissimo che mamma aveva cucinato sulla griglia,
senza aggiunta di maionese, solo limone e un po’ d’olio – è veramente fissata
con la cucina dietetica, ha paura che diventi grasso come il mio amico Michele,
detto Michelone – Ma prima avevo fatto i compiti, lavato i denti e messo il
pigiama, come ogni sera.
Di solito dopo essermi
allenato per due ore con la squadra di pallacanestro mi addormentavo quasi
immediatamente, ma quella sera mi tornava alla mente il DF, il suo modo strano
di comportarsi, quelle luci che avevamo visto dal piano della strada e che
corrispondevano alla cantina. Dovevo assolutamente capirne qualcosa di più.
Aspettai che mamma si
addormentasse profondamente e sopra il pigiama indossai la tuta nera che mi
aveva regalato nonna Ida per il compleanno – non mi era mai piaciuta, ma la
mettevo ogni tanto per farle piacere –
un vecchio berretto di lana e scarpe da ginnastica. Non avevo una torcia a
disposizione, ma la luce che emetteva il mio cellulare poteva bastare. In fondo
dovevo solo scendere di due piani ed arrivare all’angolo della strada.
Camminando con passo
felpato e guardandomi spesso alle spalle, come avevo visto fare nei film
d’azione , mi avvicinai alla inferriata di quella finestra aperta.
All’inizio non vidi nulla,
ma fui colpito da un odore, anzi, da una
puzza insopportabile. Assomigliava un po’ a quella della carne arrostita sulla
griglia, ma molto molto più forte, mescolata a quella del disinfettante che usava nonna quando mi puliva le ferite
che mi procuravo cadendo, quando ero più piccolo.
Accesi il display del
telefonino per fare un po’ di luce e mi parve di vedere una sagoma umana distesa
su un letto, coperta da un lenzuolo. Qualcuno che dormiva? All’improvviso si
aprì la porta, e riconobbi il DF. Guardò verso la mia parte ed io scappai a
gambe levate, terrorizzato. Non riuscii più ad addormentarmi ed il giorno dopo
ero a pezzi, ma non dissi nulla a mamma ed andai a scuola come se nulla fosse
successo.
Tanti pensieri mi passavano
per la mente. Chi c’era nascosto in quella cantina? Perchè quello strano odore?
Non potevo certo raccontare a mia madre quello che avevo scoperto, anche perchè
in realtà non avevo scoperto nulla di così sensazionale. Pensai di riprendere
le indagini quella notte stessa, ma la
stanchezza mi assalì.
Addormentandomi sognai che
il DF faceva dei regali ai bambini per attirarli nella sua cantina. Dopo averli
torturati per giorni e giorni li uccideva. Infine li faceva a pezzi, li
fotografava con l’iPad, con alcune parti del corpo cucinava delle cotolette e
le mangiava, per poi far sparire definitivamente i cadaveri.
Michele.
Tornando dal lavoro ero passata a recuperare Lorenzo a
scuola, come ogni giorno. L’avevo
trovato ad aspettarmi insieme a Michele, perchè la nonna non poteva venire a
prenderlo. L’avrei portato a casa con me fino all’ora di cena. Potevano fare i
compiti e giocare un po’.
Ero affezionata a quel
ragazzino cicciottello, con le efelidi e gli occhi vispi dietro un paio di
occhiali da miope, sempre sorridente,
anche se ogni volta mi svaligiava la dispensa, divorando voracemente ogni cosa
commestibile che trovava.
Appena tornati a casa i due
amici si chiusero immediatamente nella stanza di Lorenzo, confabulando a voce
bassa. Entrai senza bussare: “Ragazzi, volete mangiare qualcosa prima di fare
inglese?”Li trovai al computer e mi avvicinai: “State giocando? Ricordate che
prima dovete fare i compiti.” Erano intenti a leggere qualcosa, e la loro
espressione preoccupata mentre spegnevano improvvisamente lo schermo del pc
proprio non mi piaceva. Avrei indagato più tardi.
Alle 19, mentre preparavo
la cena, Lorenzo si avvicinò: “Mamma, ti prego, possiamo far restare a dormire
Michelone? Chiama tu i suoi genitori”.
La richiesta mi
sorprese. Non per i genitori di Michele,
che erano sempre contenti di sbarazzarsi un po’ del figlio , ma perchè Lorenzo
non amava condividere il suo letto, anche se era un letto a due piazze; nel sonno si agitava moltissimo e rischiava
con le sue lunghe braccia di fare male a chi gli stava vicino.
Seconda spedizione.
Avevo raccontato
tutto a Michelone, perchè avevo bisogno di condividere i miei terribili
sospetti con qualcuno, e a mezzanotte ci stavamo preparando per una seconda
spedizione verso la cantina degli orrori.
Lui era un gran
fifone, ma l’avevo convinto facendogli vedere sul pc le foto di tutti i bambini
scomparsi in Italia negli ultimi tempi
- per fortuna mamma non si era
accorta di niente, perchè non vuole che usi Internet senza avvertirla – e
dicengogli che avremmo chiamato subito la Polizia in caso di pericolo.
Si era messo sul
volto una specie di passamontagna nero, e
senza occhiali non ci vedeva bene per niente. Infatti inciampò un paio
di volte nel tragitto, finchè non lo presi per una manica e lo guidai verso la
finestra della cantina, facendogli cenno di stare zitto.
Il cattivo odore
era sparito. Si intravedeva una flebile luce: era lo schermo di un iPad,
posizionato sul comodino accanto a quello che sembrava un letto. Stavolta avevo portato la torcia che usava
mamma quando andava via la luce, e la puntai con cautela verso l’interno.
Si, era proprio un letto di metallo, come
quelli che usano negli ospedali, con tutti quei congegni per sollevare i malati
che sono immobilizzati, o che hanno qualche osso rotto. Tutto intorno il
pavimento era disseminato di giocattoli adatti ad un bambino di tre o quattro
anni: un cavalluccio a dondolo, una palla colorata, una casetta di plastica con
un piccolo tavolo e una minuscola sedia,
tantissimi animali di pezza.
Nell’altra
parete della stanza c’era anche un grande tavolo ricoperto di vari attrezzi, e
con la torcia illuminai una sega ed un coltello enormi. Michelone non potè trattenersi “Ho capito
come li fa a pezzi! Scappiamo, ti prego…” e cominciò a piangere, terrorizzato.
Io non glielo potevo dire, ma stavo morendo dalla paura: “Aspetta, ora andiamo…
stai calmo”.
Dopo aver
perlustrato per l’ultima volta la stanza, aiutato dal fascio di luce della
torcia, decisi di fare dietro-front. Michele non mi lasciava respirare per
quanto mi stringeva, mentre non faceva altro che ripetere “Andiamo… ci
ammazzerà! Andiamo a casa e chiamiamo la Polizia…ti prego!” Ogni volta che finiva
una frase mi stringeva di più e cercava di tirarmi via. Forse aveva un attacco
di panico. Mia madre mi aveva avvisato che ogni tanto gli succedevano queste
cose, perchè i genitori lo rimproveravano sempre e lo lasciavano spesso a casa
da solo. Con me era sempre tranquillo, non l’avevo mai visto così, quindi mi
sentivo in colpa.
Ma, anche questa
volta, quasi alla stessa ora, all’una di notte, la porta si aprì ed entrò il
DF. Aveva tra le braccia un corpo avvolto in una coperta. La sua ultima
vittima!
Misi una mano
sulla bocca di Michelone, che mi stava stritolando e sicuramente si sarebbe
messo ad urlare, e lo tirai via.
A casa del Dottor Franchettini.
E’ stato molto
faticoso convincere Michelone a non rivelare nulla di quella notte. Lui voleva svegliare mia madre e chiamare
immediatamente la Polizia per far arrestare il Dottore. L’ho spaventato
dicendogli che se non avevamo prove Franchettini se la sarebbe presa con
noi; potevamo rischiare la vita.
Nel frattempo ho
escogitato un piano per entrare in casa del DF e andare a curiosare in cantina.
A scuola l’anno
scorso ci hanno fatto recitare “Pinocchio” :
a me era capitato il ruolo della volpe, mentre Michele aveva
interpretato la parte del gatto. Eravamo stati così bravi, che le maestre avevano consigliato ai nostri
genitori di iscriverci ad un corso di recitazione. Era venuto il momento di
mettere in pratica le nostre capacità di attori.
Sono passati
cinque giorni, e con la scusa di andare a comprare dei quaderni, eccoci a suonare al campanello del DF – ci
eravamo infilati nel portone dietro ad un altro inquilino -
Il DF stava
guardando la televisione, a volume molto alto, e non ci ha aperto subito. Ho
riconosciuto la sigla del mio cartone animato giapponese preferito, e mi è
sembrato veramente molto strano, a dire la verità.
“Che volete?”
Ora ci sta scrutando con quel suo sguardo affilato e gelido come la lama di un
coltello. E noi: “Volevamo dirle che sicuramente qualcuno è entrato nella sua
cantina, da fuori abbiamo visto delle luci accese e sentito dei rumori
sospetti”. Intanto cerco di sbirciare dietro di lui: ancora giocattoli, e due computer,
appoggiati sul tavolo del soggiorno.
E poi succede
una cosa, che non potrò mai dimenticare, sono sicuro, anche se mi verrà quella
malattia mentale che è venuta a mio nonno, che non riconosce più nessuno e
ripete sempre le stesse cose: si avvicina un bambino, che non è proprio un
bambino, ma neanche un adulto. Cammina come un robot, ha la faccia come un
quadro di Picasso, e invece di parlare
fa dei versi strani, come il mio gatto quando vuole mangiare e gli metto i
croccantini nella ciotola. Io e Michelone rimaniamo paralizzati, ma il Dottor Franchettini ci tira dentro e
chiude a chiave il portoncino. Siamo in trappola.