sabato 28 dicembre 2013

Il Dottor Franchettini - Il racconto continua...




Illustrazione di Flavia Caracuzzo

 

IL SEGRETO DEL DOTTOR FRANCHETTINI


Una persona “ strana”.


Il Dottor Franchettini lo potevi incontrare tutte le mattine al Bar Lilly intorno alle 7 e 15, 7 e 30 al massimo. Usciva di casa prestissimo e non rinunciava mai al suo caffè macchiato, neanche in pieno inverno. La cosa che più colpiva nel volto rugoso erano gli occhi: chiari, freddi ed impenetrabili, anche quando sembrava sorridere.

I modi erano sempre gentili ed educati, ma nessuno nel quartiere sapeva nulla di quell’uomo. La signora Liliana, proprietaria del bar,  raccontava in giro che fosse un medico in pensione e che la moglie era morta già da molti anni. Non aveva figli.

Qualche volta avevo provato ad approfondire, mentre consegnavo le monete per pagare la colazione,  depositandole nella mano rugosa ed ingioiellata della signora: “Ma il dottor Franchettini… lavorava in ospedale?” Lei imbronciava un po’ la bocca, eccessivamente dipinta di rosso,  sollevava  la curva delle sopracciglia, guardava verso il basso, ma non rispondeva.

Mi ricordo che in quella mattina di febbraio faceva molto freddo, e lui era tutto imbacuccato: cappotto lungo, sciarpa attorcigliata un paio di volte intorno al collo, basco di lana, guanti di pelle.

Stavo entrando quasi di corsa nel bar insieme a Lorenzo – dovevo accompagnarlo a scuola ed eravamo già in ritardo – quando lui uscì. Ci urtammo, spalla contro spalla, e per la prima volta lessi su quel viso una nuova espressione, un misto di paura e rabbia. Anche Lorenzo cominciò a farmi delle domande. Aveva solo dieci anni, ma si incuriosiva delle persone che lui definiva “strane”. “Mamma,  il Dottor Franchettini vive da solo? Quanti anni ha? Sai che l’altro giorno ho visto che aveva comprato un orsacchiotto di peluche? E’ proprio strano…”

Io smorzavo la curiosità morbosa di Lorenzo, non era opportuno che si distraesse troppo dalla scuola e dallo sport, ma qualche giorno dopo, tornando dalla palestra, notammo il vecchietto, che  usciva da un negozio di abbigliamento per bambini con una busta enorme.  Lorenzo mi tirò per un braccio: “Mamma, seguiamolo, ti prego, voglio sapere dove sta andando!”.  Infilai gli occhiali da sole,  anche se era quasi buio. “Va bene,  camminiamo vicino al muro, stai attento a non farti vedere”.

Il Dottor Franchettini dopo un centinaio di metri si voltò. Avevo il cuore in gola per la paura. Non si accorse di noi, fortunatamente. Subito dopo entrò  in una farmacia e si rifornì di una grande quantità di cerotti, garze e disinfettanti.  Eppure non sembrava stare male, anzi… ora camminava spedito verso casa. Rimanemmo nel cortile del palazzo, da dove potevamo vedere le finestre dell’appartamento del dottore. Lorenzo volle la mia agendina,  dove trascrisse l’esito delle indagini:

“Il DF ha comprato dei vestiti per bambino e dei cerotti. E’ rientrato in casa alle ore 19,05 e si è recato in cucina. Alle 19,10 è sceso in cantina.  Alle 19,30 è risalito in cucina ed ha mangiato una cotoletta. Alle 19,50 è sceso in cantina con un  iPad.”

Era proprio andata così, ma ero talmente stanca ed infreddolita che non vedevo l’ora di tornare a casa.  Lorenzo invece era eccitatissimo: “Mamma, dobbiamo tornare più tardi, voglio scoprire chi c’è in cantina.” “Tu sei pazzo, domani hai il compito di storia, dobbiamo ancora ripassare…” Stranamente Lorenzo non protestò, ma forse lo dovevo capire che non si era arreso per nulla.



La cantina degli orrori.

Mi ero messo a letto dopo aver mangiato un hamburger buonissimo che mamma aveva cucinato sulla griglia, senza aggiunta di maionese, solo limone e un po’ d’olio – è veramente fissata con la cucina dietetica, ha paura che diventi grasso come il mio amico Michele, detto Michelone – Ma prima avevo fatto i compiti, lavato i denti e messo il pigiama, come ogni sera.
Di solito dopo essermi allenato per due ore con la squadra di pallacanestro mi addormentavo quasi immediatamente, ma quella sera mi tornava alla mente il DF, il suo modo strano di comportarsi, quelle luci che avevamo visto dal piano della strada e che corrispondevano alla cantina. Dovevo assolutamente capirne qualcosa di più.
Aspettai che mamma si addormentasse profondamente e sopra il pigiama indossai la tuta nera che mi aveva regalato nonna Ida per il compleanno – non mi era mai piaciuta, ma la mettevo ogni tanto per farle piacere  – un vecchio berretto di lana e scarpe da ginnastica. Non avevo una torcia a disposizione, ma la luce che emetteva il mio cellulare poteva bastare. In fondo dovevo solo scendere di due piani ed arrivare all’angolo della strada.
Camminando con passo felpato e guardandomi spesso alle spalle, come avevo visto fare nei film d’azione , mi avvicinai alla inferriata di quella finestra aperta.
All’inizio non vidi nulla, ma fui colpito da un odore, anzi,  da una puzza insopportabile. Assomigliava un po’ a quella della carne arrostita sulla griglia, ma molto molto più forte, mescolata a quella del disinfettante  che usava nonna quando mi puliva le ferite che mi procuravo cadendo, quando ero più piccolo.
Accesi il display del telefonino per fare un po’ di luce e mi parve di vedere una sagoma umana distesa su un letto, coperta da un lenzuolo. Qualcuno che dormiva? All’improvviso si aprì la porta, e riconobbi il DF. Guardò verso la mia parte ed io scappai a gambe levate, terrorizzato. Non riuscii più ad addormentarmi ed il giorno dopo ero a pezzi, ma non dissi nulla a mamma ed andai a scuola come se nulla fosse successo.
Tanti pensieri mi passavano per la mente. Chi c’era nascosto in quella cantina? Perchè quello strano odore? Non potevo certo raccontare a mia madre quello che avevo scoperto, anche perchè in realtà non avevo scoperto nulla di così sensazionale. Pensai di riprendere le indagini quella notte stessa, ma  la stanchezza mi assalì.
Addormentandomi sognai che il DF faceva dei regali ai bambini per attirarli nella sua cantina. Dopo averli torturati per giorni e giorni li uccideva. Infine li faceva a pezzi, li fotografava con l’iPad, con alcune parti del corpo cucinava delle cotolette e le mangiava, per poi far sparire definitivamente i cadaveri.




Michele.


Tornando dal lavoro  ero passata a recuperare Lorenzo a scuola,  come ogni giorno. L’avevo trovato ad aspettarmi insieme a Michele, perchè la nonna non poteva venire a prenderlo. L’avrei portato a casa con me fino all’ora di cena. Potevano fare i compiti e giocare un po’. 
Ero affezionata a quel ragazzino cicciottello, con le efelidi e gli occhi vispi dietro un paio di occhiali  da miope, sempre sorridente, anche se ogni volta mi svaligiava la dispensa, divorando voracemente ogni cosa commestibile che trovava.
Appena tornati a casa i due amici si chiusero immediatamente nella stanza di Lorenzo, confabulando a voce bassa. Entrai senza bussare: “Ragazzi, volete mangiare qualcosa prima di fare inglese?”Li trovai al computer e mi avvicinai: “State giocando? Ricordate che prima dovete fare i compiti.” Erano intenti a leggere qualcosa, e la loro espressione preoccupata mentre spegnevano improvvisamente lo schermo del pc proprio non mi piaceva. Avrei indagato più tardi.
Alle 19, mentre preparavo la cena, Lorenzo si avvicinò: “Mamma, ti prego, possiamo far restare a dormire Michelone? Chiama tu i suoi genitori”.
La richiesta mi sorprese.  Non per i genitori di Michele, che erano sempre contenti di sbarazzarsi un po’ del figlio , ma perchè Lorenzo non amava condividere il suo letto, anche se era un letto a due piazze;  nel sonno si agitava moltissimo e rischiava con le sue lunghe braccia di fare male a chi gli stava vicino.


Seconda spedizione.

Avevo raccontato tutto a Michelone, perchè avevo bisogno di condividere i miei terribili sospetti con qualcuno, e a mezzanotte ci stavamo preparando per una seconda spedizione verso la cantina degli orrori.
Lui era un gran fifone, ma l’avevo convinto facendogli vedere sul pc le foto di tutti i bambini scomparsi in Italia negli ultimi tempi  -  per fortuna mamma non si era accorta di niente, perchè non vuole che usi Internet senza avvertirla – e dicengogli che avremmo chiamato subito la Polizia in caso di pericolo.
Si era messo sul volto una specie di passamontagna nero, e  senza occhiali non ci vedeva bene per niente. Infatti inciampò un paio di volte nel tragitto, finchè non lo presi per una manica e lo guidai verso la finestra della cantina, facendogli cenno di stare zitto.
Il cattivo odore era sparito. Si intravedeva una flebile luce: era lo schermo di un iPad, posizionato sul comodino accanto a quello che sembrava un letto.  Stavolta avevo portato la torcia che usava mamma quando andava via la luce, e la puntai con cautela verso l’interno.
 Si, era proprio un letto di metallo, come quelli che usano negli ospedali, con tutti quei congegni per sollevare i malati che sono immobilizzati, o che hanno qualche osso rotto. Tutto intorno il pavimento era disseminato di giocattoli adatti ad un bambino di tre o quattro anni: un cavalluccio a dondolo, una palla colorata, una casetta di plastica con un piccolo tavolo e una minuscola sedia,  tantissimi animali di pezza.
Nell’altra parete della stanza c’era anche un grande tavolo ricoperto di vari attrezzi, e con la torcia illuminai una sega ed un coltello enormi.  Michelone non potè trattenersi “Ho capito come li fa a pezzi! Scappiamo, ti prego…” e cominciò a piangere, terrorizzato. Io non glielo potevo dire, ma stavo morendo dalla paura: “Aspetta, ora andiamo… stai calmo”.
Dopo aver perlustrato per l’ultima volta la stanza, aiutato dal fascio di luce della torcia, decisi di fare dietro-front. Michele non mi lasciava respirare per quanto mi stringeva, mentre non faceva altro che ripetere “Andiamo… ci ammazzerà! Andiamo a casa e chiamiamo la Polizia…ti prego!” Ogni volta che finiva una frase mi stringeva di più e cercava di tirarmi via. Forse aveva un attacco di panico. Mia madre mi aveva avvisato che ogni tanto gli succedevano queste cose, perchè i genitori lo rimproveravano sempre e lo lasciavano spesso a casa da solo. Con me era sempre tranquillo, non l’avevo mai visto così, quindi mi sentivo in colpa.
Ma, anche questa volta, quasi alla stessa ora, all’una di notte, la porta si aprì ed entrò il DF. Aveva tra le braccia un corpo avvolto in una coperta. La sua ultima vittima!
Misi una mano sulla bocca di Michelone, che mi stava stritolando e sicuramente si sarebbe messo ad urlare, e lo tirai via.


A casa del Dottor Franchettini.

E’ stato molto faticoso convincere Michelone a non rivelare nulla di quella notte.  Lui voleva svegliare mia madre e chiamare immediatamente la Polizia per far arrestare il Dottore. L’ho spaventato dicendogli che se non avevamo prove Franchettini se la sarebbe presa con noi;  potevamo rischiare la vita.
Nel frattempo ho escogitato un piano per entrare in casa del DF e andare a curiosare in cantina.
A scuola l’anno scorso ci hanno fatto recitare “Pinocchio” :  a me era capitato il ruolo della volpe, mentre Michele aveva interpretato la parte del gatto. Eravamo stati così bravi,  che le maestre avevano consigliato ai nostri genitori di iscriverci ad un corso di recitazione. Era venuto il momento di mettere in pratica le nostre capacità di attori.
Sono passati cinque giorni, e con la scusa di andare a comprare dei quaderni,  eccoci a suonare al campanello del DF – ci eravamo infilati nel portone dietro ad un altro inquilino -
Il DF stava guardando la televisione, a volume molto alto, e non ci ha aperto subito. Ho riconosciuto la sigla del mio cartone animato giapponese preferito, e mi è sembrato veramente molto strano, a dire la verità.
“Che volete?” Ora ci sta scrutando con quel suo sguardo affilato e gelido come la lama di un coltello. E noi: “Volevamo dirle che sicuramente qualcuno è entrato nella sua cantina, da fuori abbiamo visto delle luci accese e sentito dei rumori sospetti”. Intanto cerco di sbirciare dietro di lui: ancora giocattoli, e due computer, appoggiati sul tavolo del soggiorno.
E poi succede una cosa, che non potrò mai dimenticare, sono sicuro, anche se mi verrà quella malattia mentale che è venuta a mio nonno, che non riconosce più nessuno e ripete sempre le stesse cose: si avvicina un bambino, che non è proprio un bambino, ma neanche un adulto. Cammina come un robot, ha la faccia come un quadro di Picasso,  e invece di parlare fa dei versi strani, come il mio gatto quando vuole mangiare e gli metto i croccantini nella ciotola. Io e Michelone rimaniamo paralizzati,  ma il Dottor Franchettini ci tira dentro e chiude a chiave il portoncino. Siamo in trappola.





domenica 15 dicembre 2013

La Luna del Coniglio di Giada.

Il Coniglio di Giada - Giancarlo Caracuzzo

L'arrivo della sonda cinese Chang - dal nome di una popolare principessa della mitologia cinese - sulla Luna rompe 37 anni di silenzio, visto che dal 1976 un veicolo spaziale non si posava sulla superficie lunare. E a raggiungere l'obiettivo erano state soltanto quelle definite fino a qualche anno fa le superpotenze, Unione Sovietica e Stati Uniti, i primi che nel 1969 avevano consentito che un uomo posasse piede sulla luna. Non solo, anche i cinesi, dopo la sonda, vogliono inviare sulla Luna anche gli uomini.

E che dire dell'Iran? Anche questo paese rilancia le sue ambizioni, mandando in orbita una scimmia per la seconda volta. Ma c'è chi dice che c'era il trucco, e che l'animale mostrato all'arrivo era molto diverso da quello della partenza. In Occidente non si nascondono le preoccupazioni sulle finalità militari di queste spedizioni.

Luna, obiettivo dei sognatori, mèta degli scienziati. Dice il fisico Giovanni Bignani che conoscendo meglio questo pianeta saremo tutti meno ignoranti;  se tutte le nazioni forti mettessero insieme le loro risorse,  si potrebbe fondare una grande agenzia spaziale, che potrebbe utilizzare gli investimenti anche in ambito tecnologico ed in telemedicina. Un esempio: dal San Raffaele di Milano un chirurgo già ora può effettuare un intervento in Congo.

domenica 8 dicembre 2013

Il Dottor Franchettini è tornato!
Ecco qua il riepilogo, siamo alla quarta puntata:

 Una persona "strana"


Il Dottor Franchettini lo potevi incontrare tutte le mattine al Bar Lilly intorno alle 7 e 15, 7 e 30 al massimo. Usciva di casa prestissimo e non rinunciava mai al suo caffè macchiato, neanche in pieno inverno. La cosa che più colpiva nel volto rugoso erano gli occhi: chiari, freddi ed impenetrabili, anche quando sembrava sorridere.

I modi erano sempre gentili ed educati, ma nessuno nel quartiere sapeva nulla di quell’uomo. La signora Liliana, proprietaria del bar, raccontava in giro che fosse un medico in pensione e che la moglie era morta già da molti anni. Non aveva figli.

Qualche volta avevo provato ad approfondire, mentre consegnavo le monete per pagare la colazione, depositandole nella mano rugosa ed ingioiellata della signora: “Ma il dottor Franchettini… lavorava in ospedale?” Lei imbronciava un po’ la bocca, eccessivamente dipinta di rosso, sollevava la curva delle sopracciglia, guardava verso il basso, ma non rispondeva.

Mi ricordo che in quella mattina di febbraio faceva molto freddo, e lui era tutto imbacuccato: cappotto lungo, sciarpa attorcigliata un paio di volte intorno al collo, basco di lana, guanti di pelle.

Stavo entrando quasi di corsa nel bar insieme a Lorenzo – dovevo accompagnarlo a scuola ed eravamo già in ritardo – quando lui uscì. Ci urtammo, spalla contro spalla, e per la prima volta lessi su quel viso una nuova espressione, un misto di paura e rabbia. Anche Lorenzo cominciò a farmi delle domande. Aveva solo dieci anni, ma si incuriosiva delle persone che lui definiva “strane”. “Mamma, il Dottor Franchettini vive da solo? Quanti anni ha? Sai che l’altro giorno ho visto che aveva comprato un orsacchiotto di peluche? E’ proprio strano…”

Io smorzavo la curiosità morbosa di Lorenzo, non era opportuno che si distraesse troppo dalla scuola e dallo sport, ma qualche giorno dopo, tornando dalla palestra, notammo il vecchietto, che usciva da un negozio di abbigliamento per bambini con una busta enorme. Lorenzo mi tirò per un braccio: “Mamma, seguiamolo, ti prego, voglio sapere dove sta andando!”. Infilai gli occhiali da sole, anche se era quasi buio. “Va bene, camminiamo vicino al muro, stai attento a non farti vedere”.

Il Dottor Franchettini dopo un centinaio di metri si voltò. Avevo il cuore in gola per la paura. Non si accorse di noi, fortunatamente. Subito dopo entrò in una farmacia e si rifornì di una grande quantità di cerotti, garze e disinfettanti. Eppure non sembrava stare male, anzi… ora camminava spedito verso casa. Rimanemmo nel cortile del palazzo, da dove potevamo vedere le finestre dell’appartamento del dottore. Lorenzo volle la mia agendina, dove trascrisse l’esito delle indagini:

“Il DF ha comprato dei vestiti per bambino e dei cerotti. E’ rientrato in casa alle ore 19,05 e si è recato in cucina. Alle 19,10 è sceso in cantina. Alle 19,30 è risalito in cucina ed ha mangiato una cotoletta. Alle 19,50 è sceso in cantina con un iPad.”

Era proprio andata così, ma ero talmente stanca ed infreddolita che non vedevo l’ora di tornare a casa. Lorenzo invece era eccitatissimo: “Mamma, dobbiamo tornare più tardi, voglio scoprire chi c’è in cantina.” “Tu sei pazzo, domani hai il compito di storia, dobbiamo ancora ripassare…” Stranamente Lorenzo non protestò, ma forse lo dovevo capire che non si era arreso per nulla.

La cantina degli orrori.


Mi ero messo a letto dopo aver mangiato un hamburger buonissimo che mamma aveva cucinato sulla griglia, senza aggiunta di maionese, solo limone e un po’ d’olio – è veramente fissata con la cucina dietetica, ha paura che diventi grasso come il mio amico Michele, detto Michelone – Ma prima avevo fatto i compiti, lavato i denti e messo il pigiama, come ogni sera.
Di solito dopo essermi allenato per due ore con la squadra di pallacanestro mi addormentavo quasi immediatamente, ma quella sera mi tornava alla mente il DF, il suo modo strano di comportarsi, quelle luci che avevamo visto dal piano della strada e che corrispondevano alla cantina. Dovevo assolutamente capirne qualcosa di più.
Aspettai che mamma si addormentasse profondamente e sopra il pigiama indossai la tuta nera che mi aveva regalato nonna Ida per il compleanno – non mi era mai piaciuta, ma la mettevo ogni tanto per farle piacere – un vecchio berretto di lana e scarpe da ginnastica. Non avevo una torcia a disposizione, ma la luce che emetteva il mio cellulare poteva bastare. In fondo dovevo solo scendere di due piani ed arrivare all’angolo della strada.
Camminando con passo felpato e guardandomi spesso alle spalle, come avevo visto fare nei film d’azione , mi avvicinai alla inferriata di quella finestra aperta.
All’inizio non vidi nulla, ma fui colpito da un odore, anzi, da una puzza insopportabile. Assomigliava un po’ a quella della carne arrostita sulla griglia, ma molto molto più forte, mescolata a quella del disinfettante che usava nonna quando mi puliva le ferite che mi procuravo cadendo, quando ero più piccolo.
Accesi il display del telefonino per fare un po’ di luce e mi parve di vedere una sagoma umana distesa su un letto, coperta da un lenzuolo. Qualcuno che dormiva? All’improvviso si aprì la porta, e riconobbi il DF. Guardò verso la mia parte ed io scappai a gambe levate, terrorizzato. Non riuscii più ad addormentarmi ed il giorno dopo ero a pezzi, ma non dissi nulla a mamma ed andai a scuola come se nulla fosse successo.
Tanti pensieri mi passavano per la mente. Chi c’era nascosto in quella cantina? Perchè quello strano odore? Non potevo certo raccontare a mia madre quello che avevo scoperto, anche perchè in realtà non avevo scoperto nulla di così sensazionale. Pensai di riprendere le indagini quella notte stessa, ma la stanchezza mi assalì.
Addormentandomi sognai che il DF faceva dei regali ai bambini per attirarli nella sua cantina. Dopo averli torturati per giorni e giorni li uccideva. Infine li faceva a pezzi, li fotografava con l’iPad, con alcune parti del corpo cucinava delle cotolette e le mangiava, per poi far sparire definitivamente i cadaveri.

Michele.


Tornando dal lavoro ero passata a recuperare Lorenzo a scuola, come ogni giorno. L’avevo trovato ad aspettarmi insieme a Michele, perchè la nonna non poteva venire a prenderlo. L’avrei portato a casa con me fino all’ora di cena. Potevano fare i compiti e giocare un po’.
Ero affezionata a quel ragazzino cicciottello, con le efelidi e gli occhi vispi dietro un paio di occhiali da miope, sempre sorridente, anche se ogni volta mi svaligiava la dispensa, divorando voracemente ogni cosa commestibile che trovava.
Appena tornati a casa i due amici si chiusero immediatamente nella stanza di Lorenzo, confabulando a voce bassa. Entrai senza bussare: “Ragazzi, volete mangiare qualcosa prima di fare inglese?”Li trovai al computer e mi avvicinai: “State giocando? Ricordate che prima dovete fare i compiti.” Erano intenti a leggere qualcosa, e la loro espressione preoccupata mentre spegnevano improvvisamente lo schermo del pc proprio non mi piaceva. Avrei indagato più tardi.
Alle 19, mentre preparavo la cena, Lorenzo si avvicinò: “Mamma, ti prego, possiamo far restare a dormire Michelone? Chiama tu i suoi genitori”.
La richiesta mi sorprese. Non per i genitori di Michele, che erano sempre contenti di sbarazzarsi un po’ del figlio , ma perchè Lorenzo non amava condividere il suo letto, anche se era un letto a due piazze; nel sonno si agitava moltissimo e rischiava con le sue lunghe braccia di fare male a chi gli stava vicino.